L’abuso del diritto in ambito tributario. Critica

L’elevata pressione fiscale in Italia, non corrispondente alla presenza di servizi e beni collettivi adeguati, ha condotto privati e imprese a creare e ad utilizzare nuovi negozi giuridici o strumenti economici finalizzati a ridurre il carico tributario.
Tali iniziative a volte non integrano gli estremi dell’evasione fiscale e neanche possono rientrare all’interno dell’ipotesi dell’elusione fiscale, prevista e vietata nell’ordinamento giuridico italiano, all’art. 37 bis D.P.R. 29 settembre 2973 n. 600.
Le attività sopra dette, infatti, non sono dirette ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario, ma realizzano comunque lo scopo della riduzione del carico fiscale.
Pertanto, alcune attività di imprese italiane ed estere, sebbene formalmente lecite, sono state sanzionate da numerose sentenze della Corte di Giustizia della Comunità Europea e della Corte di Cassazione italiana perché integranti gli estremi dell’abuso del diritto, in quanto dirette allo scopo esclusivo o comunque essenziale di un risparmio fiscale, con una finalità economica soltanto marginale.
Pertanto, è necessario conoscere i caratteri dell’abuso del diritto descritti dalla giurisprudenza, per evitare che le imprese o i privati, consigliati dai professionisti del diritto, svolgano attività formalmente lecite ma ritenute “abusive” dai Giudici.
Ciò premesso, verranno esposte di seguito le posizioni della giurisprudenza, sia comunitaria che nazionale e di parte della dottrina, nonché alcuni rilievi critici del sottoscritto con riguardo ad una delle sentenze che hanno descritto in modo compiuto i caratteri dell’abuso del diritto in ambito tributario.
La posizione della Corte di Giustizia.
L’esistenza di un principio generale – di formazione comunitaria – di divieto delle pratiche abusive è stata affermata da una pluridecennale giurisprudenza comunitaria, a partire dagli anni ‘70
La Corte di Giustizia, peraltro, già in una sentenza del 1974 ha affermato la diretta applicazione dei diritti e dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario anche relativamente ai tributi di matrice non comunitaria, comprendendo pertanto in tale ambito sia l’imposizione diretta sia i tributi comunque diversi da iva, accise, diritti doganali.
In altre successive sentenze, la Corte di Giustizia ha rilevato che i principi di effettività e non discriminazione comportano l’obbligo per le autorità nazionali di applicare, anche d’ufficio, le norme di diritto comunitario.
D’altra parte si deve segnalare una sentenza del 1997, in cui la Corte ha affermato che l’adozione, da parte dello Stato membro, di una norma che consente sic et simpliciter all’amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti di un’operazione di fusione o concentrazione costituisce un mezzo sproporzionato per la persecuzione del fine della direttiva, in quanto l’operazione deve essere globalmente esaminata.
Il rifiuto di un’applicazione meccanica del principio può cogliersi anche nel filone della giurisprudenza comunitaria che ha negato la qualificazione come abuso del diritto di stabilimento la scelta di un Paese come sede sociale da parte di un’impresa che non possiede ivi strutture amministrative o produttive, soltanto per il regime fiscale più favorevole di tale Paese.
Nel 2003, inoltre, la Corte europea interviene nuovamente per confermare il principio del divieto dell’abuso del diritto riguardo ai tributi armonizzati o comunitari.
La pronuncia della Corte di Giustizia che costituisce una pietra miliare nell’ambito della nozione e della repressione dell’abuso del diritto è la sentenza del 21 febbraio 2006 (cosiddetta sentenza Halifax).
In tale sentenza, come peraltro viene rilevato in successive pronunce della Corte di Cassazione italiana, la Corte di Lussemburgo ha elaborato una nozione di abuso del diritto in modo del tutto autonomo dalle ipotesi di frode.
In particolare, la Corte di Giustizia afferma, nella sentenza Halifax, che il proprium del comportamento abusivo consiste nel fatto che il soggetto ha posto in essere operazioni reali, assolutamente conformi ai modelli legali, senza immutazioni del vero o rappresentazioni incomplete della realtà.
D’altra parte vi è da dire che la sentenza Halifax avverte del rischio dell’attribuzione al Giudice nazionale di un’eccessiva discrezionalità, quando un’operazione può avere una giustificazione economica alternativa al mero risparmio fiscale.
L’abuso, inoltre, – afferma la Corte – deve risultare da rigorosi elementi obiettivi e fa rilevare che l’operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, tali quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio di imposta.
La Corte di Giustizia, anche in una recente pronuncia (Corte di Giustizia, sentenza C-425/06 del 21 febbraio 2008) , in sito web http://eur-lex.europa.eu), nel momento in cui riscontra una domanda pregiudiziale della Corte di Cassazione italiana, fa rilevare che l’abuso può ricorrere anche quando lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale sia essenziale, ossia non esclusivo, il che non esclude l’esistenza dell’abuso quando concorrano altre ragioni economiche.
Pertanto, con tale sentenza la Corte di Giustizia allarga ulteriormente il campo di applicazione dell’abuso nel momento in cui stabilisce la possibilità che esso ricorra anche nell’ipotesi in cui lo scopo economico sia solo marginale ma non completamente assente.
Inoltre, tale ultima sentenza della Corte di Giustizia assume una certa rilevanza, perché i giudici comunitari si sono spinti a fornire al giudice nazionale una serie di indici o di sintomi rilevatori dell’abuso, nel caso in cui vengano stipulati contratti di leasing collegati alla costituzione di usufrutto aventi ad oggetto autoveicoli da parte di società appartenenti allo stesso gruppo.
Tali sintomi individuati dalla Corte nella fattispecie posta al suo esame sono i seguenti:
– le due società partecipanti all’operazione appartengono allo stesso gruppo;
– la prestazione della società di leasing è frazionata, dato che l’elemento caratteristico di finanziamento è affidato ad un’altra società per essere suddiviso in prestazioni di credito, di assicurazione e di intermediazione;
– la prestazione della società di locazione finanziaria è, pertanto, ridotta alla locazione del veicolo;
– i canoni di locazione corrisposti dall’utilizzatore sono d’importo appena superiore al costo di acquisto del bene;
– tale prestazione sembra priva di redditività, per cui l’efficienza economica dell’impresa non può essere assicurata con i soli contratti conclusi con gli utilizzatori;
– la società di leasing percepisce il corrispettivo dell’operazione di locazione finanziaria solo grazie al cumulo dei canoni versati dall’utilizzatore e degli importi versati dall’altra società dello stesso gruppo.
Peraltro, nelle ultime sentenze sopra citate si nota, come è stato rilevato dalla stessa Corte di Cassazione (Corte di Cass. Sent. n. 25374 del 17 ottobre 2008, pg. 25, su sito web www.cortedicassazione.it ), il rischio di un eccessivo allargamento della nozione di abuso del diritto, avvertito anche in altri ordinamenti, come in alcune sentenze degli U.S.A. (menzionate dalla Corte di Cassazione nella sentenza sopra riferita), in cui viene affermato che il concetto di «economic substance of the transaction» deve essere inteso in senso oggettivo, e non soggettivo.
Una volta esaminato brevemente l’orientamento della Corte di Giustizia, vediamo quale sia la posizione della Corte di Cassazione italiana.

Le sentenze della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nelle varie sentenze emanate sull’argomento nel corso degli anni, ha sancito l’applicabilità anche nell’ordinamento italiano del divieto dell’abuso del diritto in materia tributaria.
Al riguardo, si deve avere preliminarmente riguardo alle sentenze (Corte di Cass., sentenza n. 20398 del 21.10.2005 e sentenza n. 22932 del 14.11.2005, in banca dati Big Unico di Ipsoa), relative ai cosiddetti casi di dividend washing e dividend strippping, in cui viene affermato che il Giudice può e deve ritenere nulle per difetto di causa le operazioni di trasferimento per breve tempo di azioni, da parte di un soggetto estero, al solo scopo di far usufruire al contribuente italiano una deduzione per minusvalenza.
Nelle predette sentenze, la Corte di Cassazione, ancora timidamente, discute dell’abuso del diritto, facendo riferimento ad esso soltanto come prospettazione eventuale e possibile.
Invece, successivamente, con una sentenza del maggio 2006[1] [1] (Corte di Cass. Sent.n. 21221 del 29.9.2006, in banca dati Big Unico di Ipsoa), la Corte di Cassazione afferma che ormai il divieto dell’abuso del diritto costituisce un principio consolidato, soprattutto alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia della Comunità Europee.
Tale sentenza appare rilevante laddove afferma che spetta al giudice di merito la valutazione del carattere abusivo ed elusivo dell’operazione economica posta in essere dal contribuente.
Tale affermazione appare significativa, anche perché la Cassazione in altre pronunce, come vedremo meglio in seguito non ha mai fornito contezza di esso.
Con un’ulteriore sentenza del 2006 (Corte di Cass. Sent.n. 21221 del 29.9.2006, in banca dati Big Unico di Ipsoa ), la Corte afferma che non sono opponibili alla amministrazione finanziaria gli atti che costituiscono abuso del diritto e aggiunge che tale principio trova conferma in tutti i settori dell’ordinamento tributario e quindi anche nell’ambito delle imposte dirette.
Inoltre, con tale sentenza vengono attenuate fortemente le difese del contribuente, incidendo in modo significativo sull’onere della prova, nella misura in cui si dice che incombe sul contribuente fornire la prova dell’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico.
In questa ipotesi, viene agevolato il compito dell’amministrazione finanziaria, la quale può limitarsi a sostenere che una certa attività imprenditoriale è abusiva.
D’altra parte, la Corte di Cassazione, in tale sentenza fa rilevare in astratto la liceità dell’obiettivo della minimizzazione del carico fiscale.
Inoltre la Corte evidenzia che “il ricorso a clausole generali non deve, a sua volta, rappresentare uno strumento di elusione del principio di legalità e della difesa del contribuente in materia di imposizione fiscale. A ciò si aggiunge l’esigenza fondamentale di non invadere il campo della libertà di impresa, garantito dall’art. 42 Cost.”
Con una sentenza dell’ottobre 2006 (Corte di Cassazione, sent. n. 22023 del 13.10.2006, in banca dati Big Unico di Ipsoa) la Corte di Cassazione conferma l’orientamento secondo cui il divieto dell’abuso del diritto è ormai un principio consolidato, immanente in diversi settori del diritto tributario nazionale.
Conformi alle sentenze precedenti sono quelle del dicembre 2006 e del maggio 2007 Corte di Cassazione sent. n. 25612 dell’1 dicembre 2006 e 10273 del 4 maggio 2007, in banca dati Big Unico di Ipsoa
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Devono essere, inoltre, citate due sentenze dell’aprile 2008 Corte di Cassazione sent. n. 8772 del 16-1/4-4 2008;sentenza n. 10257 del 16-1/21-4 2008, in banca dati Big Unico di Ipsoa , con cui è stato affermato ancora una volta il principio che dovrà essere il contribuente a dovere fornire la prova dell’esistenza delle ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico.

La posizione della dottrina
La dottrina dominante è critica relativamente alla posizione della giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di abuso del diritto, facendo rilevare che il principio del divieto di abuso del diritto applicato nell’ordinamento italiano comporta la violazione di norme e principi, anche di rango costituzionale.
Al riguardo, si deve evidenziare l’aspra critica rivolta con specifico riguardo alle sentenze della Corte di Cassazione n. 8772/2008 e 10257/2008.
In particolare, con riferimento alle predette sentenze, alcuni autori fanno notare che non è possibile applicare nell’ordinamento nazionale il principio comunitario del divieto dell’abuso del diritto, poiché in materia fiscale, a differenza del diritto privato, civile o commerciale, la materia fiscale è condizionata dal principio della riserva di legge (art. 23 Cost.).
I soggetti passivi, spiegano gli autori, devono essere posti nelle condizioni di conoscere ex ante il carico tributario delle operazioni effettuate ed i rischi ai quali possono andare incontro a seguito dei controlli che il Fisco ha il potere di attivare.
Inoltre, viene rilevato che l’ impossibilità di applicare tale principio discende dal fatto che la Corte di Giustizia, nell’ambito delle varie sentenze sull’abuso del diritto, ha interpretato una disposizione contenuta nella direttiva iva e che la direttiva è racchiusa in un testo non direttamente applicabile all’interno degli Stati membri.
Inoltre, viene evidenziato che l’applicabilità del principio dell’abuso del diritto in ambito nazionale dovrebbe porsi, semmai, soltanto per le materie fiscali disciplinate dal diritto comunitario, ovvero per particolari aspetti applicativi di altre imposte regolate dal diritto comunitario.
Inoltre molti fanno rilevare che è vero che il sistema deve mirare alla giustizia nella ripartizione dei carichi e non deve accettare supinamente le fattispecie di abuso.
Tuttavia, la dottrina sottolinea che nel cercare di raggiungere tale obiettivo è necessario che vi siano specifiche disposizioni normative al riguardo, pena la violazione del principio della riserva di legge.
Inoltre, secondo un orientamento, la Corte di Cassazione ha effettuato una vera e propria storpiatura del concetto di abuso prefigurato nella giurisprudenza comunitaria.
Invero, tale parte della dottrina evidenzia che la Corte di Giustizia ha ritenuto abusivo il comportamento tendente a conseguire non un qualsiasi vantaggio fiscale, ma solo quello contrario all’obiettivo perseguito dalle disposizioni comunitarie e nazionali.
Invece, la Corte di Cassazione ha ritenuto abusivo qualsiasi tipo di vantaggio fiscale, anche qualora questo possa rientrare all’interno di quelli consentiti.
Peraltro, si deve registrare anche un orientamento di qualche autore che giunge alla conclusione della diretta applicabilità nell’ordinamento domestico del principio giurisprudenziale di matrice comunitaria.
D’altra parte gli stessi autori fanno rilevare che il risparmio fiscale per essere abusivo deve rappresentare uno sviamento rispetto alle finalità della norma.
Una volta, discusso delle posizioni della giurisprudenza e della dottrina in generale, sembra opportuno evidenziare ed analizzare una delle recenti sentenze della Corte di Cassazione, n.25374 del 17 ottobre 2008, che ha definito in modo chiaro il concetto di abuso del diritto e che, peraltro, presta il fianco ad alcuni rilievi critici.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 25374 del 17 ottobre 2008
Il caso oggetto della controversia decisa dalla Corte di Cassazione riguarda un processo verbale di constatazione in cui la Guardia di Finanza riferiva che una società alfa aveva partecipato, insieme ad altra società di leasing dello stesso gruppo, beta, ad operazioni di locazione finanziaria e di costituzione di usufrutto aventi ad oggetto autoveicoli.
La partecipazione della società alfa consisteva nell’assicurare il bene oggetto di leasing contro rischi diversi dalla responsabilità civile e nel garantire, con cauzione pari al costo del bene non coperto dai canoni e con fideiussione illimitata, l’adempimento degli obblighi assunti dall’utilizzatore verso la società concedente.
Tutto quanto sopra, verso un corrispettivo pagato anticipatamente dall’utilizzatore alla società alfa.
A tale corrispettivo faceva riscontro una compressione dell’importo globale dei canoni convenuti dall’utilizzatore con la società di leasing, fino a ridurre, nella maggior parte dei casi, i canoni ad importi di poco superiori al costo del bene, oltre ad una provvigione dell’1% corrisposta ad un consulente.
Il ricavo della società di leasing veniva integrato da un compenso a titolo di intermediazione corrisposto dalla società alfa.
Secondo la Guardia di Finanza, le operazioni conseguivano il risultato pratico di contrarre la base imponibile i.v.a. dell’operazione di leasing a causa della riduzione dei canoni, mentre i corrispettivi che la società alfa riceveva dall’utilizzatore e quelli che a sua volta pagava alla società di leasing venivano fatturati in esenzione da i.v.a., ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Tali pattuizioni, anche se contenute in distinti contratti tra la società alfa e la società di leasing( convenzione generale ), tra la prima e l’utilizzatore ( convenzione assicurativa, riguardante anche le garanzie ) e tra società di leasing e utilizzatore ( contratto di locazione finanziaria ), costituivano, nel loro complesso, un negozio unitario a tre parti.
Il corrispettivo pagato dall’utilizzatore per la locazione finanziaria veniva artificiosamente frazionato per ridurre l’imponibile, mentre il ruolo di concedente il leasing veniva ripartito tra la società di leasing e la società alfa.
Sulla base di tale verbale veniva notificato alla società Italservice un avviso di accertamento in rettifica, con irrogazione di sanzioni.
A seguito dell’impugnazione dell’avviso di accertamento, la Commissione Tributaria di primo grado accoglieva il ricorso, e la decisione era confermata in grado d’appello, in quanto veniva riconosciuta l’autonomia della causa di ciascun contratto e quindi la diversità degli stessi.
Successivamente, l’Amministrazione Finanziaria proponeva ricorso in Cassazione che veniva accolto con la sentenza n. 25374 del 17 ottobre 2008.
Nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione, quest’ultima, prima di emanare la sentenza, riteneva che la causa presupponesse la risoluzione di questioni d’interpretazione del diritto comunitario e per questo motivo rimetteva il procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee per la risoluzione di questioni pregiudiziali di interpretazione.
La Corte di Cassazione domandava pregiudizialmente alla Corte di Giustizia se l’abuso del diritto ricorresse non solo nell’ipotesi in cui lo scopo del raggiungimento del vantaggio fiscale fosse lo scopo esclusivo dell’operazione ma se tale scopo fosse solo essenziale e comunque associato a ragioni economiche.
Inoltre la Corte di Cassazione domandava se potesse essere considerato abuso del diritto una separata conclusione di locazione finanziaria (leasing), di assicurazione e d’intermediazione, avente come risultato la soggezione ad iva del solo corrispettivo della concessione in uso del bene.
La Corte di Giustizia, con sentenza del 21 febbraio 2008 (C- 425/06) rispondeva che la sesta direttiva deve essere interpretata nel senso che l’esistenza di una pratica abusiva si ha qualora il perseguimento del vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale e non esclusivo dell’operazione controversa.
Inoltre la Corte di Giustizia faceva rilevare che è compito del giudice di rinvio determinare se, ai fini dell’applicazione iva, operazioni come quelle in contestazione possano considerarsi rientranti nella pratica abusiva.
In particolare, la Corte di Giustizia evidenziava che è compito del giudice nazionale valutare se sussista un’operazione economica, al di la della struttura contrattuale della stessa.
La Corte di Giustizia ha fornito anche alcuni indizi, che la Corte di Cassazione ha ritenuto presenti nel caso che ci occupa per accertare la presenza dell’abuso del diritto.
La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, dopo una disamina della giurisprudenza comunitaria e italiana e dopo l’analisi della giurisprudenza e della normativa extracomunitaria, affermava l’applicazione alla questione prospettata della fattispecie dell’abuso del diritto, ritenendolo un principio comunitario applicabile direttamente a livello nazionale.
Invero, la Corte di Cassazione faceva rilevare la necessità che lo strumento dell’abuso del diritto deve essere utilizzato con particolare cautela, dovendosi sempre tenere presente che l’impiego di forme contrattuali e/o organizzative che consentano un minore carico fiscale costituisce esercizio della libertà di impresa e di iniziativa economica.
La Corte, inoltre, riguardo all’onere della prova, in prima battuta fa rilevare che grava sul contribuente l’onere di dimostrare che l’uso della forma giuridica corrisponde ad un reale scopo economico, diverso da quello di un risparmio fiscale.
Tuttavia, immediatamente dopo, con un arresto innovativo rispetto alle pronunce precedenti, afferma che l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica incombe sull’amministrazione finanziaria, la quale non potrà certo limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso da quello del risparmio di imposta.
Pertanto, anche questa volta la Corte di Cassazione conferma l’immanenza nel diritto nazionale del principio del divieto dell’abuso del diritto e, nell’esercizio del potere di decisione nel merito ad essa attribuito dall’art,. 384, comma 1, c.p.c. rigetta il ricorso originario della società avverso l’avviso di accertamento.

Rilievi critici

A.- La scelta della Corte di Cassazione di decidere nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c. non appare corretta.
La Corte di Cassazione, prima di emanare la sentenza di cui si discute, ha chiesto pregiudizialmente alla Corte di Giustizia della Comunità Europea se possa essere considerato abuso del diritto una separata conclusione di contratti di locazione finanziaria, di finanziamento, di assicurazione e d’intermediazione, avente come risultato la soggezione ad iva del solo corrispettivo della concessione in uso del bene.
Orbene, a tale quesito pregiudiziale, la Corte di Giustizia ha chiarito che è compito del giudice di rinvio determinare se, ai fini dell’applicazione dell’iva, operazioni come quelle in contestazione possano considerarsi rientranti in una pratica abusiva.
La Corte di Giustizia ha fatto rilevare anche che il giudice di rinvio dovrà uniformarsi ai criteri enunciati in motivazione.
Peraltro, la stessa Corte di Cassazione, alla pg. 17 della sentenza n. 25374/2008, evidenzia quali siano tali predetti criteri ed in particolare al punto d) evidenzia l’assunto della Corte di Giustizia, secondo cui è compito del giudice nazionale valutare se sussista un’operazione unica, al di là della struttura contrattuale di essa.
Orbene, alla luce delle considerazioni sopra esposte, si ritiene che solo un accertamento di fatto sulla natura e sulla causa dei vari contratti stipulati dalle parti avrebbe potuto condurre a ritenere esistente nel caso che ci occupa il presupposto fondamentale perchè ricorresse l’abuso del diritto.
Invero, la Corte di Giustizia ha evidenziato che al giudice di rinvio, ossia alla Cassazione, spettava di valutare il nesso di causalità tra la stipulazione di separati contratti a fini di un risparmio iva e la presenza dell’abuso del diritto.
Al riguardo, la Corte di Cassazione afferma che va considerata abusiva la pratica in contestazione perché il finanziamento costituisce uno strumento diretto a consentire l’utilizzazione del bene.
La Suprema Corte fa rilevare altresì che le prestazioni sono state effettuate da imprese appartenenti allo stesso gruppo ed il contratto avente ad oggetto la fornitura del bene appare privo di adeguata redditività.
Orbene, tali affermazioni appaiono frettolose e non supportate da validi supporti giustificativi di carattere economico.
Invero, non si può affermare che il contratto di cui si discute sia privo di redditività, in quanto il contratto suddetto appare lucrativo proprio perché collegato con il contratto di assicurazione.
Inoltre, il fatto che i vari contratti siano stati posti in essere da imprese appartenenti allo stesso gruppo, non può essere ritenuto un indizio dell’abusività dell’attività, perché essa potrebbe essere posta in essere anche da soggetti imprenditoriali appartenenti a gruppi diversi ed avere comunque finalità elusiva, per via degli accordi sottostanti tra le parti.
Pertanto, a parere di chi scrive, doveva essere svolta un’analisi economica più approfondita, che soltanto mediante l’ausilio di una consulenza tecnica di carattere economico poteva essere garantita e tale consulenza poteva essere eventualmente disposta solo dai giudici di merito.
Pertanto, sommessamente si ritiene che La Corte di Cassazione abbia errato nel decidere la controversia anche nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c..

B.- Mancano i criteri per definire l’esistenza dell’abuso del diritto nella fattispecie concreta.
Nella sentenza in commento e in tutte le altre in cui è stata affermata l’esistenza dell’abuso del diritto, la Corte di Cassazione ha in astratto ricostruito il concetto di abuso del diritto, come strumento di repressione di condotte imprenditoriali di elusione fiscale.
Tuttavia, tali ricostruzioni teoriche appaiono zoppe nel momento in cui non riempiono di contenuto il concetto di abuso.
Gli sforzi della giurisprudenza sono stati diretti, infatti, solo verso la ricostruzione teorica dell’abuso del diritto e non sui criteri per verificare l’esistenza dell’abuso del diritto nella fattispecie concreta.

C.- Onere della prova.
Nella sentenza della Corte di Cassazione in commento, alla pg. 25, al punto 5.6, viene detto espressamente :”Per una corretta applicazione del principio il Collegio ritiene necessari alcuni chiarimenti sull’affermazione contenuta nella già richiamata sentenza della Corte n. 10257 / 2008, secondo cui l’onere di dimostrare che l’uso della forma giuridica corrisponde ad un reale scopo economico, diverso da quello di un risparmio fiscale, incombe sul contribuente”.
Nel confermare tale principio, la Corte rileva che l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica incombe sull’amministrazione finanziaria, la quale non potrà certamente limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d’imposta”
Orbene, dalle affermazioni sopra dette non si comprende se l’onere di dimostrare l’abusività della pratica gravi sull’amministrazione finanziaria oppure sul contribuente.
Ovviamente, come sopra è stato già rilevato, sarebbe maggiormente conforme alle norme della procedura civile ritenere che l’onere della prova gravi sull’amministrazione finanziaria, soprattutto nella fattispecie che ci occupa in cui l’imprenditore viene lasciato in balia della descrizione dell’abuso del diritto, fornito dall’amministrazione finanziaria e dagli Organi Giudiziari.

D.- L’abuso anche in presenza di un’utilità economica
Appare eccessivo il contenuto della sentenza della Corte di Giustizia, successivamente ripreso dalla Corte di Cassazione, dove si afferma che l’abuso del diritto ricorre non solo nel caso in cui il vantaggio fiscale sia l’unico obiettivo della pratica intrapresa ma anche nel caso in cui il vantaggio fiscale sia connesso comunque ad un’utilità economica.
Invero, così ragionando, si dovrebbe ritenere che siano numerosi e imprevedibili i casi in cui accanto all’utilità economica, vi sia lo scopo essenziale del vantaggio fiscale.
Per assurdo si dovrebbe ritenere che sia abusiva anche la pratica del creditore di un’impresa fallita, il quale si insinua all’interno di una procedura concorsuale assolutamente priva di beni al solo fine di potere dedurre le passività subite per l’insolvenza del proprio debitore.
In tal caso nessuno si sognerebbe di considerare tale pratica abusiva, sebbene essa non comporti alcuna utilità economica.
Tuttavia, in astratto si tratterebbe di una pratica rientrante all’interno del principio di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza.
Invero, per evitare i rischi di una estensione ad libitum del concetto di abuso del diritto da parte della giurisprudenza, sarebbe necessario che il legislatore riempisse di contenuto il concetto di abuso del diritto, attraverso l’identificazione di limiti temporali ed economici tali da fornire al contribuente la possibilità di verificare a priori la sussistenza dei caratteri dell’abuso del diritto.
Messina, 30 aprile 2009
Avv. Mario Mancuso